martedì 28 febbraio 2012

Scuola di Preghiera per Giovani


Per il mese di Marzo sono sospesi gli incontri del mercoledì sera. Parteciperemo, invece, alla scuola di preghiera per giovani con il Vescovo Luciano Monari. Ci troveremo ogni giovedì sera fuori dal Duomo Nuovo alle ore 20.30.



venerdì 10 febbraio 2012

Intervento del vescovo Luciano Monari al Consiglio comunale della

Città di Brescia in occasione dei Santi patroni Faustino e Giovita sul tema:

"L'urgenza della concordia"


Ringrazio di cuore il signor sindaco Paroli, la presidente Bordonali e tutti voi per l’invito a parlare in questa sede in occasione della festa dei nostri patroni Faustino e Giovita. Vorrei vivere questo momento con tutta umiltà insieme con voi che amministrate la città per un mandato ricevuto dai cittadini. Quando annuncio il vangelo alla comunità cristiana so di farlo con l’autorità che mi viene dalla mia missione di vescovo. Qui non ho da insegnare, ma da intrecciare un dialogo fraterno di sincerità e di stima con tutti voi e, attraverso voi, con la città di Brescia che, come voi, amo e cerco di servire.

Tra i detti che esprimono la saggezza popolare si dice, ad esempio che “ciascun popolo ha i governanti che si merita” e viceversa che “i governanti hanno il popolo che si meritano.” Come tutti i detti proverbiali, queste espressioni non dicono una legge della vita sociale come se sempre e ovunque le cose accadessero proprio così. Non è vero, naturalmente; ma mi sembra che l’intento di quei detti sia un altro. Come se dicessero: voi, gente del popolo, se le cose non vanno non date tutta la colpa ai governanti; piuttosto chiedetevi che cosa potete fare voi perché le cose migliorino. E reciprocamente: voi, governanti, se le cose non vanno non gettate tutta la colpa sul popolo, ma chiedetevi che cosa potete fare voi per migliorarle. Ecco, vorrei collocare le mie parole all’interno di questa logica; non m’interessa distribuire meriti o colpe agli altri. M’interessa capire come una società può crescere e migliorare; m’interessa capire che cosa la situazione attuale chiede a me e agli altri Bresciani insieme con me.

Fa parte dei ricordi di scuola l’espressione di Sallustio: concordia parvae res crescunt; discordia maxumae dilabuntur, Con la concordia le piccole cose crescono, nella discordia anche le più grandi vanno in rovina. Ma risale ai ricordi di scuola anche l’affermazione opposta di Eraclito che: la guerra è padre di tutte le cose, di tutte è il re; gli uni disvela come dei e gli altri come uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi. È come dire che la varietà delle cose, la storia degli uomini è prodotta dal contrasto, dalla lotta. Sallustio, come tutti gli storici dell’antichità, voleva ricavare dagli avvenimenti del passato la lezione che permettesse di vivere meglio oggi e aveva riscontrato che il progresso di Roma era dovuto ai suoi momenti di concordia e che al contrario le discordie intestine avevano affrettato le sconfitte. A sua volta Eraclito, filosofo, era colpito dall’osservazione della trasformazione continua delle cose: tutto cambia e si trasforma; solo il cambiamento è fecondo, la stasi è prodromo alla morte. Chi ha ragione? O se hanno una parte di ragione tutti e due, come dobbiamo immaginare il rapporto tra la concordia e la contrapposizione? E perché?

C’insegnano gli esperti che ci sono due tipi di giochi: i giochi a somma zero e quelli a somma ‘non zero’. Nei giochi a somma zero, se uno dei giocatori vince, necessariamente l’altro perde; e quello che il vincitore guadagna è la somma precisa di ciò che perdono gli altri giocatori. È gioco a somma zero il poker o una partita di football; chi partecipa è in lotta con gli altri giocatori (con la squadra avversaria) e deve immaginare una strategia che lo conduca a prevalere, sconfiggendo gli avversari; tutto chiaro. Ma ci sono anche giochi a somma non-zero nei quali la vittoria di uno non comporta la sconfitta degli altri; anzi, può accadere che proprio la vittoria di uno favorisca il buon successo di altri. Se c’è da disincagliare una nave finita tra gli scogli, si richiedono le operazioni di diversi attori: personale di bordo, ingegneri, palombari, meccanici, esperti di pompe, tecnici del petrolio… Non c’è dubbio: in questo caso il gioco riesce bene se tutti ‘vincono’ cioè se tutti riescono a fare con successo la propria parte, e se l’azione di uno si salda efficacemente con l’azione di altri. In questo caso la partita non si gioca contro gli altri partecipanti, ma insieme con loro contro una situazione di pericolo o una minaccia di danno.

L’interrogativo allora diventa: la vita di una città è un gioco a somma zero nel quale se uno vince l’altro perde? O è un gioco a somma non zero, dove la vittoria di uno favorisce la vittoria degli altri? Ci sono numerosi giochi a somma zero: le elezioni, ad esempio. Sono in palio un certo numero di seggi da dividere nel Consiglio Comunale, i diversi schieramenti lottano per conquistare questi seggi; se uno schieramento guadagna alcuni seggi, ne rimangono meno a disposizione degli altri. Accanto alle elezioni possiamo ricordare i concorsi o le aste pubbliche; ma soprattutto la concorrenza commerciale. Sembra che questo tipo di concorrenza sia prezioso per la vita sociale, tanto che, per garantirlo, gli stati e le organizzazioni internazionali hanno inventato strutture di sorveglianza che impediscano i monopoli e quindi rendano la concorrenza effettiva e non solo apparente. Da un confronto a tutto campo si è convinti che abbiano da guadagnare i cittadini. Quando invece la concorrenza è zoppa per una qualche forma di monopolio, a rimetterci sono i cittadini che vengono costretti a pagare un prezzo più elevato per procurarsi un bene.

Tutto questo è vero e si potrebbero moltiplicare gli esempi presi dal funzionamento del mercato ma anche dal funzionamento della società politica. Bisogna però aggiungere subito che la società nel suo complesso non funziona come un gioco a somma zero ma come un gioco a somma non-zero. Prendete, ad esempio, la ricerca scientifica. Nella conquista di un Nobel c’è un vincitore solo; ma nel processo di sviluppo della conoscenza che porta alla conquista di un Nobel c’è una linea impressionante di ‘vincitori’, cioè di persone che hanno conquistato questo o quel traguardo, fatto questa o quella scoperta, proposto intuizioni nuove. Solo dai successi di molti può uscire anche il successo di uno che conquista un premio particolare. Il patrimonio di conoscenze non è una quantità chiusa da distribuire tra un certo numero di pretendenti in modo tale che la conoscenza di uno è preclusa agli altri; è invece una quantità aperta che cresce col contributo di tutti diventando sempre maggiore.

Qualcosa di simile si può dire anche per il sistema di mercato. È vero che tra due negozi vicini si sviluppa una dinamica di concorrenza per cui ciascuno cerca di attirare clienti al proprio negozio allontanandoli dal negozio concorrente. Ma è anche vero che questa ‘vittoria’, se così si può dire, non deve diventare eccessiva; non deve normalmente giungere all’eliminazione dell’avversario perché questo fatto eliminerebbe anche un consumatore che, coi suoi consumi, contribuisce al funzionamento del sistema e potrebbe, alla fine dei conti, rivelarsi controproducente, forse il segno iniziale di una tendenza recessiva. È interesse di ciascuno che anche gli altri riescano a stare sul mercato e così contribuiscano a una maggiore creazione e distribuzione di ricchezza. Insomma, al di là della logica del gioco a somma zero che domina alcuni aspetti della vita sociale, se ne sviluppa un’altra, più ampia, a somma non-zero. A motivo di questo fatto la concorrenza economica non dovrà essere una lotta all’ultimo sangue che tende all’eliminazione dell’avversario, ma un confronto che salva la presenza e la capacità di agire economicamente dell’altro.

Arriviamo allora alla domanda che c’interessa: il funzionamento di un Consiglio Comunale va pensato come un gioco a somma zero o un gioco a somma non zero? Se fosse un gioco a somma zero l’obiettivo della maggioranza sarebbe quello di eliminare la minoranza, almeno facendola tacere, non prendendo in considerazione le sue posizioni, anzi cercando di ridicolizzarle. E viceversa l’obiettivo della minoranza sarebbe quello di fare cadere la maggioranza a qualsiasi costo, con tutti i mezzi, contestando tutti i suoi provvedimenti, giocando sulle decisioni impopolari che chi governa è costretto a prendere. In realtà ciò che un Consiglio Comunale deve proporsi è il funzionamento migliore del sistema-città; la formazione di una maggioranza e di una minoranza è funzionale a questo obiettivo. Sarebbe miope la maggioranza che giocasse l’asso pigliatutto dicendo: abbiamo vinto le elezioni, quindi comandiamo noi e non vogliamo che alcuno ci condizioni. Come sarebbe miope la minoranza che giocasse il gioco del “tanto peggio, tanto meglio” e quindi si illudesse di vincere la partita utilizzando questa strategia. Ciò che è male per la città è male per la maggioranza e per la minoranza. Se l’organismo politico o economico è malato, né la destra riuscirà a fare la sua politica, né la sinistra. Chiunque sia al governo non avrà spazi d’azione, ma sarà costretto a usare semplicemente i mezzi curativi, le medicine necessarie. A nessuno conviene dover prendere in cura un organismo malato. E siccome l’alternanza è scritta nella logica della democrazia, la ricerca concorde del bene della città è vantaggio di tutti. Purtroppo non succede spesso così. Uno degli spettacoli meno gradevoli a cui ci è dato di assistere è la litania delle dichiarazioni dei politici di vari schieramenti che la televisione ci offre nei telegiornali. Ci si rende bene conto che non sono quasi mai dichiarazioni ‘politiche’, cioè motivate dalla ricerca del bene di tutti, ma dichiarazioni ‘partitiche’ e cioè orientate a far prevalere la propria parte contro la parte avversaria. In questo modo, dopo un po’, non ci sono più sorprese: sappiamo in anticipo quale sarà la dichiarazione di ciascun politico perché la dichiarazione non nascerà dallo studio del problema e dalla ricerca sincera delle soluzioni, ma dalla collocazione della persona nello schieramento dei partiti.

Il risultato è che il sistema funziona meno bene: se l’opposizione non collabora con proposte realistiche e se la maggioranza non ascolta seriamente la voce della parte opposta, il risultato è necessariamente un impoverimento della prassi politica e amministrativa. Voglio dire allora che dobbiamo proporre un embrassons-nous generale? Che dobbiamo cancellare ogni traccia di confronto, di lotta, di concorrenza? Certamente no; la società degli uomini non è un sistema chiuso, e il problema non è quello di trovare l’unica soluzione esistente del gioco come se fossimo davanti a uno schema di sudoku o di parole crociate. La società è un sistema aperto, che si protende verso un futuro indeterminato, che tocca all’uomo immaginare, creare, costruire, correggere, riformare, rilanciare. Siamo noi che diamo forma al futuro con le nostre decisioni e i nostri comportamenti. In questa apertura al futuro ci sono due dimensioni che inevitabilmente si incontrano, si confrontano e si limitano a vicenda. Da una parte il valore del singolo, con la sua responsabilità, creatività, libertà; dall’altra il valore della comunità che unisce in un unico destino gli individui diversi. La vita sociale pone inevitabilmente dei vincoli alla libertà dei singoli; e la libertà delle persone condiziona la vita comune. Anche in questo caso le due dimensioni non vanno intese in una contrapposizione assoluta. Ciascuno di noi può crescere come persona e diventare creativo solo perché ha alle spalle un patrimonio di cultura, di storia, di amore che ci proviene dalle generazioni che ci hanno preceduto e che ci apre straordinarie possibilità di pensiero e di esperienza. Come è stato detto acutamente, siamo nani sulle spalle di giganti. Vediamo più lontano che il gigante sul quale siamo appollaiati, ma solo perché egli ci porta sulle sue spalle. Se rifiutassimo il sostegno del gigante, saremmo ricondotti immediatamente alla statura misera del singolo, con possibilità scarse. Insomma, individuo e comunità si sostengono e si potenziano a vicenda. Se la libertà dell’individuo viene esaltata in modo acritico e assoluto siamo di fronte all’anarchia e l’anarchia non ha mai consentito una vita comune buona. Se il valore della comunità viene proclamato in modo assoluto, cadiamo nel totalitarismo e la dignità personale è umiliata. Si tratta allora di costruire un equilibrio che non sarà mai perfetto e che procederà attraverso oscillazioni. Per questo ha un senso la presenza sullo scacchiere politico di una corrente più sensibile alla libertà personale e una più attenta alla solidarietà sociale. Se queste due posizioni anziché cercare di distruggersi a vicenda cercano di equilibrarsi e correggersi a vicenda il risultato sarà migliore.

Bisogna infatti ricordare che il bene concreto è sempre contemporaneamente individuale e sociale: è individuale perché i soggetti che debbono vivere bene sono le persone concrete; è sociale perché solo il funzionamento delle realtà sociali (delle istituzioni) può garantire il flusso continuo di beni che sono necessari per le singole persone. Un bene sociale non è autenticamente tale se non produce beni concreti per le persone. Possiamo anche sognare un modello perfetto di stato o di organizzazione o di azienda… ma se lo stato concreto o l’organizzazione concreta o l’azienda concreta non producono effettivamente i beni individuali necessari e utili (il cibo, la casa, il lavoro, la gratificazione affettiva, le relazioni umane autentiche, la libertà, la fraternità…) non sono nemmeno beni sociali. Il loro valore non si misura dalla corrispondenza maggiore o minore con un’idea astratta di stato, organizzazione, azienda, ma con la quantità e qualità di beni umani che riescono ad assicurare nel tempo. Di fatto, può accadere che un’istituzione che in passato rispondeva ai bisogni concreti delle persone, non risponda più alle necessità, diventi auto-referenziale, si preoccupi più di mantenere se stessa che di produrre beni per le persone. In questo caso bisogna essere capaci di riformare le strutture per renderle adatte ai tempi nuovi e alle necessità nuove.

Parallelamente, non è possibile parlare di beni individuali se non mettendoli in rapporto con i beni sociali perché solo nel contesto della società i beni individuali possono essere garantiti. Anche la fruizione più elementare di beni (la colazione che faccio al mattino) è possibile solo all’interno di una struttura economica complessa: il lavoro agricolo, il commercio, la distribuzione, il sistema di controlli sanitari… Al di fuori di questo contesto i beni individuali non possono essere assicurati se non in minima parte e in modo del tutto aleatorio.
Se si tiene presente questo intreccio, si capisce anche che il problema non è quello di sposare un’ottica individuale o un’ottica sociale come se fosse quella giusta, condannando l’ottica opposta. Il problema è invece quello dell’equilibrio, dell’armonia, della sinergia.

Il progresso della società è il risultato cumulativo di una serie di scelte intelligenti e responsabili. Il che significa, evidentemente, che il fattore principale del progresso è la persona umana con la sua intelligenza e la sua libertà. È solo la persona che può decidere e le decisioni sono gli elementi determinanti di ogni progresso. Il problema è che le decisioni siano corrette e buone; e questo richiede alcune condizioni:
- un’attenzione leale al mondo nel quale ci muoviamo. Solo conoscendo correttamente il mondo nel quale ci muoviamo si possono prendere decisioni utili. Ma c’è una difficoltà: ogni conoscenza nasce da una selezione tra gli innumerevoli dati. Si fa attenzione ai dati rilevanti e si trascurano invece quelli irrilevanti che distrarrebbero solo l’attenzione. Ma come distinguere i dati rilevanti da quelli irrilevanti? Qui viene in gioco l’intelligenza dell’uomo; ma bisogna che l’intelligenza non sia deformata da interessi o abitudini o preferenze. Tutti noi siamo istintivamente inclinati a sottolineare i dati che ci danno ragione e che giustificano le nostre scelte; e siamo altrettanto inclini a trascurare i dati che si oppongono alle nostre idee o preferenze. Ma se l’intelligenza seleziona i dati secondo interessi di parte, il risultato non può che essere negativo. È necessaria l’oggettività dello sguardo, la libertà dalle abitudini mentali, il controllo dei propri interessi economici, politici, affettivi, di parte. Solo così si può giungere a una conoscenza corretta della realtà, la prima condizione per prendere decisioni sagge.
- poi diventa importante l’intelligenza che immagina delle possibilità nuove. L’intelligenza dell’uomo è creativa; esamina i dati e li raccorda tra loro in mille modi diversi; e questi modi sono altrettante luci che possono permettere di vedere la realtà con occhi nuovi, di immaginare quello che la realtà potrebbe diventare. Quanto più una persona è intelligente tanto più riesce a interpretare i dati dell’esperienza, a immaginare un futuro originale significativo, a intravedere nuove strade per rispondere alle sfide del presente.
- Ma l’intelligenza non basta. L’intelligenza è penetrante, illumina; ma non tutte le illuminazioni sono vere. A volte immaginiamo che le cose stiano in un certo modo mentre la realtà è diversa. Per questo ci vuole capacità autocritica, la capacità di discernere tra le idee luminose quelle che sono anche vere, quelle che possono essere portate ad effetto. A volte idee meno luminose, meno geniali si rivelano più efficaci perché sono capaci di mordere meglio, più in profondità la realtà e quindi di assumere le forze della realtà al proprio servizio.
- Non basta ancora. La conoscenza è il prerequisito indispensabile alla decisione e alla scelta. Ma ci vuole qualcosa in più. Bisogna imparare ad essere responsabili e cioè a saper valutare esattamente i vantaggi e i costi di ogni scelta. Non ci sono scelte significative che non abbiano un prezzo; quando si decide di andare per una via, bisogna rinunciare a percorrere le vie alternative. E questa decisione deve essere responsabile; deve essere accompagnata da una valutazione degli effetti a breve scadenza e anche a lungo termine; degli effetti per noi stessi, ma anche per gli altri; per il proprio gruppo di appartenenza ma anche per tutti gli altri gruppi sociali.

Insomma, il progresso di una società è il risultato di un flusso continuo di piccoli miglioramenti, prodotti dall’intelligenza e dalla responsabilità della persona umana. Piccoli miglioramenti che suppongono un’attenzione intelligente alle situazioni e ai cambiamenti necessari. Ciò che era utile in una situazione, può diventare controproducente in una situazione cambiata; ed è saggezza essere disposti a cambiare col cambiare delle situazioni. La debolezza di quelle che noi chiamiamo ‘ideologie’ sta proprio qui: nel fatto che ritengono di avere la risposta ottima per tutte le situazioni quali che esse siano. Ragionando in questo modo, diventano stolte perché cercano di imporre vincoli passati a situazioni nuove, finiscono per irrigidire le situazioni dentro a una corazza rigida, che impedisce i movimenti sciolti. Quando Davide si preparava a combattere Golia gli fu messa addosso la corazza di Saul, ma Davide la rifiutò perché era troppo rigida e gli impediva di correre, di spostarsi velocemente – proprio quelle che erano le sue vere armi, necessarie contro il gigante Golia. La società attuale è una società a cambiamento veloce, con scoperte sempre nuove, con strumenti sempre più raffinati per cogliere la realtà e per operare nella realtà. È saggezza accettare questi cambiamenti e sfruttarli se si vuole essere all’altezza del tempo. Poco alla volta i cambiamenti si saldano tra loro e producono un flusso di progresso sempre più accentuato.

Ho descritto quella che sarebbe la situazione ideale; in realtà le cose non vanno sempre così bene. A questo cammino di crescita si oppongono numerosi ostacoli che nascono dalle scelte libere delle persone quando queste scelte non sono sagge o non sono responsabili. Provo a enumerare alcuni degli ostacoli alla crescita.

Il primo è l’egoismo, la noncuranza degli altri che nasce dall’illusione che sia possibile progredire personalmente, diventare più ricco o più potente o più famoso, anche se non ci si prende cura degli altri e anche se gli altri si trovano in una condizione di debolezza. Anzi, l’illusione è che quanto più gli altri sono poveri e deboli, tanto più noi possiamo diventare ricchi e forti. Illusione dicevo, che nasce dall’idea che la vita sociale sia un gioco a somma zero. La realtà è diversa ed è che se tutti gli altri diventano poveri, anche la mia crescita di ricchezza diventa aleatoria e soggetta a scomparire facilmente; se invece anche gli altri diventano ricchi, la ricchezza è più sicura per tutti. In realtà ciò che deforma il giudizio è il meccanismo del confronto: il nostro cuore è siffatto che accetta anche di perdere, a condizione però che gli altri perdano di più, a condizione che il confronto con gli altri ci sia favorevole. Buona parte delle nostre tristezze viene da questo: non dal fatto che non abbiamo il necessario per vivere, ma dal fatto che vediamo gli altri che hanno di più. Dobbiamo uscire da questa strettoia perché ci impedisce di contribuire cordialmente al bene di tutti, ci rende avari non solo di denaro ma di idee, di speranze, di realizzazioni. L’amore del prossimo non è solo un comandamento fondamentale della legge: “Amerai il prossimo tuo come te stesso.” È anche la condizione per una crescita migliore della società perché permette alle forze di tutti di svilupparsi in sinergia con le forze degli altri e apre quindi possibilità più ampie di crescita.

Un secondo pericolo, anche più grave, è quello della fedeltà al proprio gruppo quando si trasforma in ostilità nei confronti dei gruppi alternativi. Ciascuno di noi ha bisogno di superare l’isolamento che crea paura e un senso di colpa; uno dei modi di superare l’isolamento è appunto l’appartenenza a un gruppo – il paese d’origine, un gruppo di elezione, un partito politico, un’appartenenza religiosa e così via. Non c’è niente di male in questo. Il problema emerge quando l’appartenenza a un gruppo diventa sorgente di opposizione e ostilità agli altri gruppi. Allora si tende a giustificare tutto quello che appartiene al proprio gruppo e a condannare tutto quello che appartiene al gruppo opposto. In questo modo ci si sente protetti, confortati dal consenso del gruppo di appartenenza. È sempre possibile trovare motivi per razionalizzare le proprie opzioni; ma spesso gli esiti sono diversi da quelli che ci si propongono. Agendo in questo modo, il senso di sicurezza tende a diminuire perché mi sento circondato da persone non solo diverse ma che reputo ostili. Sono portato a immaginare che, come io mi identifico col mio gruppo, anche gli altri si identifichino col loro gruppo. E l’ostilità che nutro contro gli altri, immagino che sia presente anche negli altri contro di me. Il risultato diventa inevitabilmente una maggiore insicurezza per tutti.

Ciò che definisce il valore di un uomo, non sono le sue appartenenze di diverso genere, ma la saggezza e il senso di responsabilità con cui prende le decisioni e fa le scelte. Anche qui dobbiamo dire che il futuro sarà più promettente per quelle società che riescono a valorizzare il contributo di tutti e che quindi riducono il tasso di emarginazione. Temo che un certo livello di emarginazione sia inevitabile, soprattutto in una società complessa e quindi esigente come quella in cui viviamo; di conseguenza sarà sempre un compito della società l’aiuto a coloro che si trovano ai margini della vita sociale. Ma l’obiettivo primario dev’essere quello di coinvolgere tutti, di responsabilizzare tutti, anche se in modi diversi.

Un terzo ostacolo al progresso è la tendenza a trascurare gli effetti a lungo termine delle scelte che facciamo. Si tratta anche in questo caso di andare contro una tendenza istintiva. Il senso comune – cioè quel modo di pensare che condividiamo naturalmente con gli altri – tende a occuparsi molto degli effetti immediati delle scelte e a nascondersi invece gli effetti a lungo termine. Qui deve intervenire la saggezza di coloro che hanno una conoscenza approfondita dei meccanismi che sono operanti nella società. Per esempio, gli effetti di una attività produttiva sull’ambiente non si vedono subito; verrebbe perciò la tentazione di non prenderli in considerazione. C’è bisogno di qualcuno che ci ‘svegli’ e ci faccia vedere quale sia davvero il futuro che prepariamo a noi e alle generazioni future coi nostri comportamenti. Naturalmente, questa considerazione ha un prezzo e bisogna esserne consapevoli. Non è possibile, infatti, avere la botte piena e la moglie ubriaca; non è possibile godere di tutti i vantaggi economici di una scelta spregiudicata e nello stesso tempo garantirsi un ambiente non contaminato.

Dunque: egoismo, egoismo di gruppo, miopia del senso comune sono realtà che si oppongono al progresso della società. Bisogna imparare a controllarli e superarli, ma questo superamento è lento. Tutto il processo educativo dovrebbe aiutare a diventare attenti agli altri, a costruire con loro relazioni di dialogo e di rispetto, a considerare attentamente gli effetti delle proprie scelte. Ma, come sanno tutti gli educatori, si tratta di un’azione lenta. Soprattutto è lento il superamento dei pregiudizi, dei risentimenti, delle paure e dei sospetti verso gli altri. Uno degli effetti della crisi che stiamo attraversando è la riscoperta a di quanto sia importante nel funzionamento della società la fiducia reciproca; sembra cosa secondaria, ma in realtà senza fiducia gli ingranaggi della vita economica si inceppano e i rapporti politici diventano aggressivi. Ci vuole una pazienza infinita per costruire rapporti interpersonali leali, ma è una via obbligata. Senza di questo il degrado non è arrestabile. È vero che la società usa anche strumenti coercitivi orientati a eliminare il male sociale come il sistema delle leggi, i tribunali, le carceri. Ma è altrettanto evidente che questi strumenti non bastano: non possono correggere tutto. Il dramma è che quando l’egoismo si diffonde oltre una certa misura, può venire accettato socialmente come fosse cosa del tutto naturale e buona; e quando questo avviene il tessuto sociale si sfilaccia. Non si può proibire tutto e allora si accettano anche comportamenti antisociali che vengono ‘sdoganati’ come si dice con una brutta parola; l’effetto è che la società nutre dentro di sé i germi che la conducono alla decadenza; anzi, giustifica ed esalta questi stessi germi come fossero conquiste di libertà.

Ma più pericoloso dell’egoismo individuale è l’egoismo di gruppo. Proprio perché ci sentiamo al sicuro nel gruppo insieme agli altri, una parte o anche tutto il nostro senso critico viene dislocato sul gruppo e le difese personali tendono a diminuire. Il gruppo allora si dà degli strumenti che hanno come scopo esattamente quello di giustificare l’egoismo di gruppo. Fa impressione, almeno a me, vedere alcuni mezzi di comunicazione che sono esplicitamente faziosi; che considerano buono tutto e solo quello che sta da una parte; che considerano pregiudizialmente cattivo tutto quello che sta dalla parte opposta. Sono cattivi maestri che deformano le coscienze e rischiano di immettere nel tessuto sociale dei veleni pericolosi producendo spaccature profonde tra le persone. Anche in questo caso le ideologie vengono in considerazione. Sono, infatti, costruzioni (pseudo-)scientifiche che pretendono di giustificare in assoluto la propria prassi e di demonizzare la prassi avversaria dipingendola come effetto di depravazione. Purtroppo veniamo da una stagione che non è stata avara di questi veleni; e purtroppo la tendenza è sempre quella di vedere il torto solo dalla parte degli avversari. Il che ha come effetto inevitabile la non disponibilità a cambiare se stessi, a rendere migliori i propri sentimenti, più attente e responsabili le decisioni e le azioni.

Naturalmente, fino a che il gruppo che è sulla cresta dell’onda continua ad avere successo, fino a che fa fronte a ogni nuova sfida con una risposta creativa, si considera il figlio del destino e provoca più ammirazione ed emulazione che non risentimento ed opposizione. Ma lo sviluppo guidato dall’egoismo di gruppo finisce con l’essere unilaterale. Esso divide il corpo sociale non solamente in coloro che hanno e coloro che non hanno, ma anche fa dei primi i rappresentanti del fior fiore culturale dell’epoca per lasciare gli altri quali palesi avanzi di un’era dimenticata. Infine, nella misura in cui il gruppo ha incoraggiato e accettato un’ideologia allo scopo di razionalizzare il proprio comportamento, nella stessa misura diventa cieco nei confronti della situazione reale ed è sorpreso che nasca un’ideologia contraria la quale renderà cosciente un opposto egoismo di gruppo.

Il declino ha un livello ancora più basso. Non soltanto compromette e devia il progresso. Non soltanto la disattenzione, l’ottusità, l’irragionevolezza, l’irresponsabilità producono situazioni oggettivamente assurde. Non solo le ideologie corrompono le menti. Ma il compromesso e lo sviamento gettano discredito sul progresso. Le situazioni oggettivamente assurde non accettano di essere curate. Le menti corrotte posseggono un intuito per cogliere la soluzione sbagliata e per insistere che essa solo è intelligente, ragionevole, buona. Impercettibilmente la corruzione si diffonde dal duro ambito del vantaggio e della potenza materiale ai mass media, ai periodici alla moda, ai movimenti letterari, al sistema educativo, alle filosofie imperanti. La civiltà in declino si scava la fossa con una coerenza inflessibile. Ritrarla dalla sua marcia verso l’auto-distruzione facendo uso del ragionamento non è possibile. Il motivo è che il ragionamento ha una premessa maggiore teoretica; ma dalle premesse teoretiche si esige che si adattino ai fatti; ora, i fatti nella situazione creata dal declino sono sempre più le assurdità derivanti dal non prestare attenzione, dal non capire, dall’irragionevolezza e dall’irresponsabilità.” (Lonergan, Il metodo in teologia, 85-86)

Insomma, da una premessa deformata è difficile che si possano ricavare della conclusioni sagge. Al centro del libro dell’Apocalisse viene raccontata una visione impressionante che vorrebbe esprimere il senso della storia umana. C’è stata una guerra in cielo tra il drago (Satana) e i suoi angeli contro Michele e i suoi angeli. Il drago è stato vinto e precipitato dal cielo sulla terra dove si ferma sulla spiaggia del mare. Esce dal mare una bestia con dieci corna (quindi con un immenso potere) e sette teste (quindi con un’intelligenza sopraffina); a lei il drago trasmette il suo potere tanto che la gente viene presa da ammirazione nei confronti della bestia e si pone in un atteggiamento di obbedienza e di venerazione. Dalla terra, poi, esce una seconda bestia che ha due corna simili a quelle di un agnello, che però parla come un drago. L’interpretazione è trasparente. La prima bestia a cui il drago (Satana) ha dato il suo potere è il potere politico tirannico che si presenta come assoluto, desidera prendere il posto di Dio facendosi signore del bene de del male. La seconda bestia rappresenta il potere culturale che mette la sua intelligenza al servizio del potere politico giustificando la sua tirannia disumana. Questa bestia scrive Giovanni “costringe tutta la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia.” Insomma, essa rappresenta l’intelligenza che si pone non al servizio della verità - ma al servizio del potere; e invece di produrre la libertà delle coscienze le addormenta e le rende incapaci di reagire al male. “faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome.” C’è un potere culturale che tradisce la sua vocazione e diventa “servo del potere”, spinge ad adorare l’incarnazione del male. Credo sia soprattutto a questo che dobbiamo fare attenzione: a smascherare tutte le false razionalizzazioni, tutti gli slogan demagogici, ogni uso strumentale della verità. Solo se le coscienze degli uomini rimangono sveglie la speranza nel futuro rimane intatta.



Aula del Consiglio Comunale, 3 febbraio 2012 - Palazzo Loggia